Archiviata a novembre, la United Nation Climate Change Conference di Glasgow ha prodotto risultati subottimali rispetto all’incalzare dell’emergenza climatica globale. L’obiettivo di evitare che entro fine secolo la temperatura del pianeta aumenti di oltre 1,5 gradi centigradi, rispetto all’era preindustriale, non appare realistico. Siamo già a 1,1 gradi e secondo gli studi dell’autorevole Agenzia internazionale dell’energia, anche se tutti i 196 paesi partecipanti alla conferenza dovessero rispettare gli impegni, nel 2100 il riscaldamento globale toccherà gli 1,8 gradi. Il valore si ottiene tenendo conto degli obiettivi di azzeramento delle emissioni di gas serra che Usa ed Unione europea hanno fissato entro il 2050, la Cina nel 2060 e l’India nel 2070.
Questo significa che le fonti fossili continueranno a lungo ad avere un ruolo fondamentale nella produzione di energia, anche per la lentezza con cui si stanno individuando fonti alternative in grado di sostituirle nel breve – medio termine per soddisfare il crescente fabbisogno del pianeta. L’Italia, per esempio, dovrebbe chiudere tutte le centrali a carbone entro il 2025, lo ha stabilito il Piano nazionale per l’energia e il clima, ma diversi impianti saranno riconvertiti a gas fino a quando non ci saranno rinnovabili a sufficienza per soddisfare la domanda.
In questo quadro Glasgow ha il merito di aver posto l’opinione pubblica di fronte alle criticità politiche ed economiche che sono sul tappeto, insieme alla complessità dei problemi da affrontare. Il messaggio al mondo è stato chiaro: la transizione sarà tutt’altro che facile. Per concretizzarla serviranno strategie d’intervento, investimenti pubblici e privati di vastissima portata, insieme a cambiamenti nei comportamenti e negli stili di vita determinati dall’incalzare di nuove normative nazionali ed internazionali. La ricerca giocherà un ruolo fondamentale nel catalizzare il ritmo della trasformazione in un sistema economico dove gli idrocarburi, per il momento, sono fondamentali per innumerevoli processi produttivi industriali.
Come dovrebbe porsi l’industria dei beni di consumo di fronte a questa situazione? Certo non trovando alibi per restare alla finestra. L’ipotesi razionale è prendere atto ed accelerare la messa a punto di programmi e investimenti destinati alla transizione ecologica. Assumersi, dunque, le proprie responsabilità rispetto a un problema globale e dimostrarsi coerenti rispetto alle aspettative dell’opinione pubblica, degli investitori, dei clienti. Ma si tratta anche di non farsi trovare impreparati di fronte all’evoluzione delle regole del gioco, che influenzeranno l’attività di tutti i settori e penalizzeranno le realtà più arretrate. Stare fermi, ridurre al minimo i propri interventi, significherebbe trovarsi improvvisamente a fare i conti con una discontinuità talmente intensa da pregiudicare la competitività e il futuro dell’azienda. Un esempio? Il Piano nazionale di ripresa e resilienza prevede la regola dell’invarianza climatica: ogni decreto ministeriale e bando relativo a misure d’incentivazione per le imprese dovrà contenere questa clausola. Questo significa che oltre all’autocertificazione di essere “ecologicamente neutrale”, chi richiede contributi economici dovrà esibire certificazioni e documenti attestanti che le spese finanziate non creino danno significativo a clima e ambiente.
C’è poi il fronte del consumatore: segnali puntuali del cambiamento che ci attende su scala globale sono efficacemente fotografati da un’indagine della società di consulenze Cap Gemini. Sette consumatori su dieci si dicono intenzionati ad adottare pratiche circolari. Il 54% è pronto a ridurre i suoi consumi, il 72% ad acquistare prodotti più durevoli. Il 44% negli ultimi dodici mesi ha aumentato gli acquisti di alimentari e bevande che si concentrano sul riciclaggio e la riduzione degli sprechi. Quasi il 50% ritiene che le aziende non stiano facendo abbastanza per riutilizzare i rifiuti in tutti i settori. Il 45%, infine, si dice disposto a sostenere i marchi che investono nell’economia circolare.
Sarebbe impensabile, per qualunque azienda determinata a competere sui mercati interno ed internazionale, non tener conto di questa netta discontinuità che provocherà, come sottolinea Lucrezia Reichlin, docente alla London Business School, «una trasformazione radicale nel modo di vivere e di produrre, trasformazione ancora più sensibile di quanto sia avvenuto durante la rivoluzione industriale». L’economista attribuisce proprio al settore privato un ruolo fondamentale, ma considera impensabile che il cambiamento avvenga senza la mobilitazione di ingenti fondi pubblici. «Le stime», spiega, «indicano che il traguardo del net zero richiederà un immediato aumento del 2% del Pil del tasso di investimento annuale per l’uso di energia pulita e per i trasporti». E ritiene che «altre risorse dovrebbero essere dedicate a partnership pubblico privato destinate allo sviluppo tecnologico» per creare un ecosistema che investa e gestisca i rischi della transizione.
Guardiamo ora al quadro italiano. Abbiamo un alto debito e questo ci espone a un elevato rischio di sfiducia da parte degli investitori. D’altra parte, gli stanziamenti previsti dal Piano nazionale di ripresa e resilienza, come ha più volte sottolineato il Presidente del Consiglio Mario Draghi, dovrebbero creare le condizioni per un ampio ammodernamento del Paese, indispensabile proprio per creare condizioni di migliore competitività delle imprese e rafforzare l’attrattività degli investitori.
Ma attenzione: solo se i programmi saranno attuati con riforme profonde e incisive, si creeranno le condizioni per un rafforzamento della fiducia nello Stato da parte delle imprese e dei cittadini. Senza dimenticare che anche i piccoli segnali potrebbero contribuire allo scopo. Un esempio? Guardiamo al costo del carburante per gli autoveicoli. Su un prezzo alla pompa di 1,5 euro, 72 centesimi sono di accise. E a che servono le accise? A garantire investimenti per il futuro del Paese? Pare proprio di no se consideriamo che parte delle poste ancora presenti erano state introdotte a suo tempo per finanziare interventi per la guerra d’Etiopia (1935), la crisi di Suez (1956), il disastro del Vajont (1963), l’alluvione di Firenze (1966), il terremoto del Belice (1968), il terremoto del Friuli (1976), il terremoto dell’Irpinia (1980), la guerra del Libano (1983), la missione in Bosnia (1996)… Ci fermiamo al secolo scorso, in attesa di una salutare sforbiciata.
Competere significa guardare oltre Glasgow (di Ivo Ferrario)
La conferenza Onu sul clima ha prodotto risultati inferiori alle aspettative.
L’opinione pubblica ha percepito criticità politiche ed economiche, realizzando la complessità dei problemi da affrontare. Ma le imprese non possono stare alla finestra perché…