Ripensare la sostenibilità
Quando il 48% (in crescita) della società afferma di sentirsi “esclusa dal benessere” [Eumetra, 2022] parlare di sostenibilità appare non solo sensato ma decisamente ineludibile. O no? La sostenibilità, non è solo accezione di sostenibilità ambientale, ma anche sostenibilità sociale. Che l’industria e la distribuzione si pongano degli obiettivi, che la finanza li sostenga e che lo Stato le normi, è quasi un ragionamento di buon senso (e in questo inverno anomalo chi potrebbe razionalmente obiettare?).
Meno convincente è però la narrazione che vede nel consumatore un entusiastico supporter della sostenibilità tout court. Siamo consapevoli che milioni di persone manifestano per la difesa dell’ambiente (altrettante per la giustizia sociale). Eppure gli studi che conduciamo quotidianamente ci dipingono una realtà ben più complessa.
Da anni impieghiamo due criteri per studiare la popolazione:
- La percezione di benessere personale: cioè la soddisfazione (soggettiva) per il lavoro, il reddito, la famiglia, la comunità, il territorio
- L’idea di collettività che abbiamo: ovvero se ci sentiamo (sempre soggettivamente) parte di un gruppo (il popolo, la comunità professionale, la comunità di territorio, religiosa, politica) o meno
Questi criteri sono utili sia a comprendere la società (le idee che esprime, i valori) che a interpretare le decisioni di acquisto e di consumo.
Insieme al 48% della popolazione che si definisce “esclusa dal benessere” (lato sinistro della mappa), si osserva un 34% (un individuo maggiorenne su tre – la parte bassa della mappa) che dichiara apertamente di non curarsi del prossimo. “Prima vengo io” o, al massimo, “il mio intorno famigliare”.
Una prima conseguenza, a livello di narrazione sociale: parlare di sostenibilità in termini di responsabilità individuale (“non consumare troppo, fai la raccolta differenziata, rispetta le minoranze ….”) è debole se 1 persona su 3 è indifferente (o contraria).
Una seconda conseguenza attiene invece al nostro mestiere di aziende: le scelte di acquisto e consumo di questo terzo della popolazione NON sono guidate da considerazioni circa la sostenibilità. Ogni confezione “green”, ogni appello all’equità e alla solidarietà, ogni certificazione, appaiono a costoro inutili, problematiche, spesso sono interpretate come “scuse per alzare i prezzi” se non autentiche menzogne.
Di converso abbiamo invece un 40% di popolazione che si percepisce “nel benessere” (ripetiamo: condizione soggettiva, non ha a che fare necessariamente con reddito elevato o agi) e che si configura come appartenente ad una collettività. Su questi, al contrario, la narrazione classica (“dobbiamo farci carico di…”) non solo funziona a livello sociopolitico, ma incide sulle decisioni di acquisto e consumo.
Eppure, se non ci fermiamo alla patina del racconto e analizziamo un po’ i dati scopriamo che tra coloro che dovrebbero essere la quintessenza dell’egocentrismo si rilevano:
- concentrazioni di acquisti veggie e diete vegetariane
- approvazione (per quanto inferiore alla media) delle politiche che mirano alla salubrità delle falde acquifere (67%), all’accesso alle energie rinnovabili (64%), alla salute (sistema sanitario, 60%)
Appare quindi evidente che in realtà ci troviamo di fronte a due versioni di sostenibilità. Quella della responsabilità collettiva (“We care”) e quella dell’egoismo sostenibile (“I care because I have an interest in it”). Occorre quindi, in altre parole, trasmettere non solo un’idea di progresso ma anche un’idea di vantaggio. Forse la sostenibilità in quanto utilità è la declinazione che, come imprese, ci permetterà di rivolgerci al consumatore in un colloquio, in una vera conversazione.
Alberto Stracuzzi
Market Research Director